I social network, nati alla fine degli anni novanta e divenuti molto più popolari nel decennio successivo, permettono agli utenti che li usano di creare un appropriato profilo utente, di organizzare una lista di persone con cui rimanere in contatto, di pubblicare un proprio flusso di aggiornamenti, e volendo, di accedere anche a quello altrui.
Accanto ai social prendono sempre più piede le applicazioni di messaggistica istantanea che ormai hanno del tutto soppiantato i vecchi sms.
La rivoluzione digitale ha senza dubbio aiutato a mettersi in contatto con amici e parenti anche lontani, ma cosa succede se dall’uso si passa all’abuso?
E’ penalmente perseguibile la condotta di un soggetto (un ex partner ad esempio) che perseguita un’altra persona con una serie di messaggi su Whatsapp o su Facebook?
Partiamo dicendo che il nostro codice penale disciplina il reato di stalking (anche conosciuto come “atti persecutori”) all’articolo 612 bis che prevede la reclusione per “…chiunque, con condotte reiterate, minaccia o molesta taluno in modo da cagionare un perdurante e grave stato di ansia o di paura ovvero da ingenerare un fondato timore per l’incolumità propria o di un prossimo congiunto o di persona al medesimo legata da relazione affettiva ovvero da costringere lo stesso ad alterare le proprie abitudini di vita“.
Il reato di stalking, dunque, prescinde dal “luogo” in cui viene consumato e, piuttosto, tende a punire un comportamento opprimente tale da cagionare alla vittima un comportamento di ansia o paura.
Ciò significa che, se le minacce o più in generale gli atti persecutori vengono consumati sui social network, è possibile denunciare il soggetto per stalking.
Questo perché gli atti persecutori non sono solo gli appostamenti, le continue telefonate, gli squilli a mezzanotte o i pedinamenti con l’auto. Qualsiasi comportamento tale da alterare le abitudini di vita quotidiana di un soggetto o di generare in lui uno stato di turbamento psicologico o da fargli temere per la propria sicurezza o quella dei propri cari, può rientrare nello stalking.
E questo a prescindere dalle ragioni per cui la persecuzione viene attuata.
Naturalmente, oltre al processo penale, può scattare l’obbligo di non avvicinarsi più alla vittima o ai luoghi da questa frequentati, potendo finanche chiedere il risarcimento del danno come parte civile.
La Corte di Cassazione è di recente intervenuta sul tema, precisando che è sussistente il reato di stalking (più propriamente detto «atti persecutori») anche in presenza di continue e asfissianti comunicazioni via telefono, Facebook e WhatsApp.
Secondo i giudici della Cassazione è del tutto ininfluente che le minacce siano rimaste solo “virtuali” e non si siano tradotte in un comportamento concreto, in quanto ciò che conta è che i comportamenti tenuti dal reo siano valutabili come «idonei a determinare un effetto destabilizzante in una persona comune».
La pronuncia della Suprema Corte va oltre e stabilisce che, nonostante in ogni piattaforma digitale sia possibile bloccare il contatto “molestatore”, il reato di stalking si configura lo stesso ed è pertanto possibile, per la vittima, sporgere idonea querela chiedendo nelle sedi opportune anche l’ordine di allontanamento ed il risarcimento dei danni.